lunedì 16 marzo 2015

Marco Lazzara - La TavolAperiodica – Azoto & Palladio

Ultimo appuntamento della rubrica dedicata a Primo Levi, autore, tra gli altri, de Il sistema periodico. A curarla è Marco Lazzara, anche conosciuto come il blogger errante. Non ha un proprio blog, infatti, ma sul profilo di google+ è possibile leggere tutti i suoi guest post. Già, ma chi è Marco Lazzara? Laureato in Chimica nel 2009, è docente presso il Centro Studi Test Torino ed anche scrittore. Il suo Incubi e Meraviglie è una raccolta di racconti di fantascienza che i lettori più giovani apprezzeranno per l'immediatezza del linguaggio, seppure molto curato, e quelli più adulti per la maturità delle riflessioni.  

m.c.

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La TavolAperiodica – Azoto & Palladio

La vita di laboratorio alle volte può essere dura. Ore, giorni di duro lavoro, per poi magari ritrovarsi con risultati poco soddisfacenti. È quello che capita a Primo Levi nel racconto Azoto, dove cerca senza successo di ottenere l’allossana. A seguire, il mio racconto Palladio, dove l’intervento di questo elemento salva una difficoltosa analisi che stavo conducendo.


Azoto

Il proprietario di una ditta di cosmetici chiede una consulenza a Primo Levi: il suo rossetto, rispetto a quello di un concorrente francese, dopo qualche tempo inizia a sbavare. Una semplice prova mostra che quello francese è realizzato con un pigmento insolubile nella cera del rossetto, mentre quello del cliente con uno solubile, quindi poco adatto. 


Soddisfatto, il cliente commissiona a Levi di produrre dell’allossana, un derivato dell’urea, per usarlo come cosmetico. Una visita alla biblioteca di facoltà rivela che il modo più economico di produrla è per demolizione ossidativa dell’acido urico, composto che si ritrova nelle urine: in piccole quantità in quelle dei mammiferi, nel 50% in quelle dei volatili e fino al 90% in quelle dei rettili. Levi procede nonostante l’ironia del produrre un cosmetico da deiezioni animali. 

Ma la cosa in realtà non è affatto semplice: la pollina (escrementi di gallina che si accumulano nei pollai) contiene anche terra, sassi, becchime, piume; inoltre è venduta a caro prezzo, perché grazie all’azoto è un ottimo concime. Dopo averne acquistata un po’, Levi tenta anche di comprare del guano a un’esposizione di rettili, ma il prezzo eccessivo lo fa rinunciare. Tornato in laboratorio, Levi passa un’intera giornata a setacciare la pollina, e due giorni a cercare di ottenere, senza successo, l’allossana. Alla fine desiste: meglio tornare alla chimica inorganica.

Palladio

Nell’antichità classica il palladio era un divino simulacro col compito di proteggere la città. Ilio non cadde finché Ulisse e Diomede, penetrati all’interno delle mura travestiti da mendicanti, non ebbero rubato quello che si trovava custodito nel tempio di Atena. 

Incontrai l’elemento che porta lo stesso nome durante la mia tesi di laurea. La tematica di cui mi occupavo era l’analisi dell’arsenico, perciò una parte di essa venne dedicata alle metodologie spettroscopiche, in modo da poter effettuare un confronto col metodo elettrochimico che cercavo di sviluppare. 

Una volta effettuata l’estrazione dell’arsenico dal campione sintetico che avevo preparato, mi trasferii nel laboratorio di analisi in tracce, che si trovava nel seminterrato dell’edificio di Chimica Analitica. Proseguendo lungo quello stesso corridoio, c’era un passaggio segreto che collegava l’edificio di Chimica Analitica con quello di Chimica. A volte io e i miei compagni che ne erano a conoscenza vi facevamo ricorso, in modo da poter passare più agevolmente da un edificio all’altro senza dover uscire all’esterno, cosa che però non era vista troppo di buon occhio dal personale docente. 

Il laboratorio di analisi in tracce era un locale piccolo, privo di finestre, l’aria proveniente dall’esterno veniva attentamente filtrata da cappe aspiranti: ricordava abbastanza un bunker antiatomico. La maggior parte dello spazio all’interno era occupato da strumentazioni, cappe, tavoli di lavoro. Grazie al cielo, il soffitto era abbastanza alto da evitarmi una crisi di claustrofobia. Prima di accedervi, si doveva stazionare in un bugigattolo, anch’esso provvisto di cappe aspiranti, dove bisognava infilarsi delle soprascarpe di plastica o in alternativa delle ciabatte da ospedale. 

Tutte queste precauzioni nascevano dal fatto che lì si effettuavano analisi di metalli in traccia, e le contaminazioni, piuttosto facili e frequenti, rappresentavano una seria problematica. In un corso che avevo seguito l’anno precedente, la dottoressa M., che lavorava nello stesso gruppo dove stavo svolgendo la tesi, aveva raccontato di alcuni di ricercatori russi convinti di aver fatto una scoperta senza precedenti, annunciata con grande enfasi all’intero mondo scientifico: la polywater, il fantomatico polimero dell’acqua. Si trattava di una bestiolina malvagia che polimerizzava in maniera irreversibile l’acqua, cosa che avrebbe potuto rappresentare una catastrofe ecologica spaventosa: se ne fosse caduto anche solo un pochino nel mare, avrebbe completamente polimerizzato l’acqua dell’intero pianeta. Venne poi fuori che quello che i ricercatori avevano scambiato per quell’assurdità chimica era in realtà semplice acqua, ma contaminata da svariate sostanze, tra cui la loro stessa epidermide: evidentemente non avevano osservato con scrupolo le procedure e avevano contaminato i propri campioni. 

Una volta in laboratorio, mi misi di buona lena a lavorare con lo strumento. Un’analisi in assorbimento atomico si basa sull’atomizzazione dell’elemento, procedura ottenuta con una fiamma o, nel mio caso, con un fornetto di grafite, che veniva poi inondato dai raggi UV provenienti da una lampada specifica per l’analisi di quell’elemento. 
Dopo tanto lavoro, i risultati furono deludenti. Qualcosa doveva essere andato storto. Dovetti ricominciare da capo: preparazione del campione, estrazione, analisi. Anche questa volta, i risultati non cambiarono. A., che mi seguiva durante la tesi, ci rifletté su e giunse alla conclusione che il fornetto di grafite doveva essere ormai usurato e bisognava quindi cambiarlo: ci avrebbe pensato lei stessa a farlo. 

Ricominciai daccapo, ma i risultati non migliorarono. Dopo un ulteriore tentativo andato a vuoto, un’intuizione di A. svelò il problema: un fornetto nuovo ha bisogno di essere condizionato, in modo da creare il giusto ambiente per l’analisi, altrimenti le specie troppo volatili vengono perse prima ancora di poter essere analizzate. A questo scopo si utilizzava una soluzione acida di un sale di palladio, elemento che qui rivelava le sue impensate qualità di protettore delle analisi in assorbimento atomico. 

Grazie al palladio, riuscii infine ad avere ragione di quell’analisi. In compenso, ebbi una curiosa sorpresa. La resa di estrazione dell’arsenico(V) sfiorava il 100%, cosa davvero ottima, considerando che in genere le rese sono molto basse e si cerca il più possibile di incrementarle. Quella dell’arsenico(III), invece, superava persino il 100%: ovvero, avevo estratto più arsenico(III) di quello effettivamente presente nel campione. Perplesso, mostrai i risultati alla mia relatrice, la professoressa A., che senza scomporsi mi spiegò che risultati del genere erano piuttosto comuni in analisi di tracce, dato che le quantità da analizzare erano minime, ed erano dovute a diverse fonti di errore: una linea di fondo un po’ alta avrebbe potuto spiegare tale risultato. Dopotutto nel mio campione erano presenti dieci miliardesimi di grammo di arsenico, quindi il mio lavoro era stato più che ottimo.  Una parte del merito va di certo al palladio, elemento che nel suo nome richiama quello di un leggendario simbolo protettivo, che aveva contribuito in maniera decisiva al successo di quell’analisi difficoltosa.

Marco Lazzara