lunedì 29 settembre 2014

Marco Lazzara - La TavolAperiodica - Zinco & Sodio

No, Zinco & Sodio non è una nuova canzone di Samule Bersani. Nonostante il mio amore per il noto (cant)autore, qui si parla di un altro autore, anzi due. Inizio da Primo Levi, di cui la maggior parte di noi ha avuto modo di leggere Se questo è un uomo e La Tregua ai tempi delle superiori. Almeno per me è stato così. E li ho odiati, come si odiano i libri che ti vengono imposti, a prescindere dal loro innegabile valore culturale. Molti anni dopo, ma non ne ricordo più il motivo, è entrato nella mia vita un altro testo di Primo Levi: ed è stato amore a prima lettura. Mi riferisco a Il sistema periodico.
Poiché, nella chimica come nella vita, esiste un legame tra tutte le cose, o almeno è questo in cui credo, grazie a google+ ho avuto la possibilità di conoscere il blogger errante: Marco Lazzara! È soltanto sul suo profilo, infatti, che è possibile leggere i suoi contributi. Ed è un piacere per me ospitarlo per la prima volta, e spero non unica, su Titoli provvisori per un romanzo postumo. Già, ma chi è Marco Lazzara? Laureato in Chimica nel 2009, è docente presso il Centro Studi Test Torino ed anche scrittore. Adesso però è tempo di leggere cosa ci racconta.

m.c.

http://www.ibs.it/ebook/Lazzara-Marco/Incubi-e-meraviglie/9788867821822.html
Clicca per maggiori informazioni sul libro di Marco Lazzara


Zinco & Sodio

Io e Primo Levi abbiamo molte cose in comune. Siamo entrambi di Torino, siamo entrambi scrittori (o almeno io ci provo), siamo entrambi dei chimici. Levi ha anche scritto un bellissimo libro, Il Sistema Periodico, in cui in ogni capitolo racconta un episodio autobiografico correlato a un diverso elemento chimico. In questo guest post (e ringrazio Massimiliano Cerreto per lo spazio che mi concede sul suo blog) parlerò di Zinco, in cui Levi racconta della sua prima esperienza nel laboratorio di Preparazioni Inorganiche della facoltà di Chimica di Torino. A seguire, il mio racconto Sodio, che parla invece della mia prima esperienza in quello stesso laboratorio, 65 anni dopo.

Zinco

Dopo i primi mesi di lezione, Levi e i suoi compagni entrano per la prima volta nel laboratorio di Preparazioni Inorganiche. Il compito che gli viene assegnato il primo giorno è piuttosto semplice, la preparazione del solfato di zinco: si discioglie dello zinco in granuli in acido solforico diluito, dalla reazione si sviluppa idrogeno gassoso e si ottiene il sale, che va purificato e ricristallizzato. Unica cosa a cui bisogna fare un po’ di attenzione è la diluizione dell’acido, perché non si deve aggiungere acqua a una soluzione acida concentrata (mai dar da bere all’acido) ma il contrario: la miscelazione è infatti esotermica e il calore sviluppato lo farebbe schizzare pericolosamente.
 

La dispensa di Levi riporta anche che lo zinco, se molto puro, resiste in maniera ostinata all’attacco acido. Da qui una sua interessante riflessione: la purezza è come una sorta di corazza che protegge dai cambiamenti, mentre sono invece le impurezze a dare il via ai mutamenti, cioè alla vita. Le impurezze sono quindi necessarie perché si muova il grande meccanismo della natura.
 

Siamo nel 1938, quando la Germania nazista tuonava a proposito della purezza della razza e tutto ciò che era diverso o dissidente veniva perseguitato; anche lo stesso Levi era ebreo.
Allora si aggiunge alla soluzione un po’ di solfato di rame, una piccola impurezza, e questo dà il via alla reazione. Immagino che in soluzione acida si generi una cella galvanica che porti il rame a ridursi a metallo e parte dello zinco a ossidarsi; si creano quindi dei primi siti più facili da attaccare dall’acido, che ora può proseguire la reazione più facilmente.
Finita la preparazione, Levi ne approfitta per chiedere a una sua compagna, di cui era invaghito, se poteva accompagnarla a casa. Lei accetta, così la sua prima giornata di laboratorio si conclude quindi con un successo.

Sodio

In dicembre era giunto il momento di entrare per la prima volta in laboratorio all’università. Si trattava di quattro ore ogni pomeriggio per un periodo di due-tre settimane. Il laboratorio di Preparazioni Inorganiche, dove avremmo messo in pratica le cose viste in quei primi mesi di lezione, attendeva me e i miei compagni di corso.
 

Attraversati i corridoi interni della facoltà, si entrava da una porta che dava immediatamente nel laboratorio. Non sapevo bene cosa aspettarmi, mentre facevo l’ingresso in quegli stessi luoghi che molti anni prima avevano visto Primo Levi. Lungo la parete di fronte a noi, alti finestroni, le cui persiane vecchie di decenni sarebbero probabilmente rimaste lì in eterno, davano su Corso Massimo d’Azeglio; alla nostra destra si stendeva la fila dei banconi, mattonelle di materiale ceramico resistente agli acidi, con sotto stipetti di legno e sopra scaffalature di vetro. Ognuno di essi era dotato di lavandini per lavare la vetreria e di rubinetti a gas per alimentare il bunsen.
 

Alla nostra sinistra, ci attendeva in uno stanzino la dott.ssa G., la docente del corso, per le consegne del materiale. Andando in ordine alfabetico, il mio cognome, che iniziava per L, era uno degli ultimi (eravamo stati divisi, per ragioni logistiche, in due turni). E a noi toccava uno spazio a parte: curiosamente, il laboratorio aveva in fondo una sorta di ala privata, a cui si accedeva attraverso un passaggio scavato nella parete divisoria.
 

Raggiunta la nostra postazione, attendevamo quindi di fare la consegna, ovvero visionare il materiale datoci in dotazione e registrarlo. Perché se qualcuno rompe o smarrisce qualcosa ha l’obbligo di ricomprarlo. Io durante quel laboratorio ruppi un beckerino da 5 ml, che si rivelò impossibile da reperire nel negozio di via Belfiore che li vendeva, se non pagando una cifra esorbitante; perciò, dietro loro consiglio, ne presi invece uno più economico da 10.
 

Feci la conoscenza di due ragazze, che condividevano con me quell’ala del laboratorio. Carmela sarebbe rimasta mia amica fino a quando ci saremmo laureati assieme, cinque anni più tardi, mentre Maria Grazia la persi nei gorghi di corsi, lezioni ed esami. Un giorno che ero andato via prima, commise un’imprudenza: bisognava diluire un acido aggiungendogli l’acqua direttamente, operazione in genere sconsigliata, in quanto il calore sviluppato può farlo schizzare, ma che se proprio si deve effettuare, bisogna svolgere con la massima attenzione. Lei, complice la fretta, non seguì le istruzioni, e un getto d’acido le schizzò in viso. Fortunatamente senza conseguenze: la dott.ssa G. le applicò un unguento e la mandò a casa a meditare.
 

Ricordo ancora oggi come mi sentissi terribilmente spaesato. La cappa, la vetreria, la piastra riscaldante e tutto il resto, che nei successivi laboratori mi sarebbero sembrati oggetti quotidiani, destavano la mia ansia. Avevo la dispensa, a cui mi aggrappavo in cerca di rassicurazione, ma nonostante ciò temevo qualche disastro. Dopo i successi del liceo, i primi tempi all’università si rivelarono durissimi.
 

Le cose apparentemente più semplici mi sembravano terribilmente complicate fatte nella pratica. Sì, conoscevo la legge della diluzione, ma come applicarla? Quale volume di soluzione avrei dovuto prelevare per ottenere la concentrazione richiesta? Chiesi aiuto agli assistenti, che molto gentilmente mi risposero: - Lo decidi tu quanto. – Certo, era ovvio, e quante volte in seguito avrei fatto quella semplice operazione quasi senza pensarci.
 

Un giorno l’esperienza consisteva nel prendere un pezzettino di sodio, lungo appena pochi centimetri, e portarlo all’incandescenza, in modo da osservare che il suo spettro ha la linea di emissione più intensa nel giallo. Non era poi così semplice, anche perché, per proteggersi la vista, venivano dati dei vetri colorati per schermare, il che rendeva il riconoscimento non certo più facile. A tutt’oggi non so se vidi mai quella colorazione, ma forse, per un attimo, mi sembrò di vedere quel frammento splendere di un miracoloso colore giallo.
 

Cercai allora, per conferma, di ripetere quello che ritenevo il mio primo piccolo successo in quel laboratorio, ma non mi riuscii, anzi, l’unica cosa che ottenni fu di ustionarmi l’indice della mano sinistra col frammento incandescente di sodio. Uscii da quell’esperienza con una sottile cicatrice, lunga mezzo centimetro, una sorta di scanalatura che mi taglia trasversalmente i dermatoglifi del dito. Le mie impronte digitali sarebbero state ancora più uniche di quanto già fossero.
 

Il sacro fuoco della Chimica aveva dunque lasciato su di me, chimico alle prime armi, il suo marchio indelebile, e mai mi avrebbe abbandonato. Perché quella cicatrice, e ciò che essa rappresenta, c’è ancora, anche dopo tutti questi anni, e sono convinto che non sparirà mai.

Marco Lazzara